CONTRO LE QUOTE ROSA, A FAVORE DELLE DONNE

Il tema delle quote rosa ricorre a intervalli regolari nei dibattiti sulle organizzazioni aziendali e sul management. L’opinione comune è che la scarsità di figure femminili ai vertici dei gruppi aziendali, grandi o piccoli che siano, sia frutto di una perdurante discriminazione esercitata dall’Uomo sulla Donna.

La verità è un’altra. Solo una minoranza di donne aspira veramente a percorrere una carriera manageriale che le porti ai vertici delle aziende. Ne consegue che le quote rosa sono inutili, ed in alcuni casi addirittura dannose.

Questo articolo è una provocazione: come tutte le provocazioni ha lo scopo di “provocare” un dibattito su argomentazioni e conclusioni che tutti danno per scontate, ma che scontate, a mio parere, non sono.
Non è scontato che esista una popolazione femminile di manager altrettanto numerosa quanto quella maschile.
Non è scontato che le donne siano veramente oggetto di discriminazione.
Non è scontato che le aspirazioni della maggioranza delle donne coincidano con una vita di sacrifici familiari in nome della carriera.

Chi fa il mio mestiere può constatare che la proporzione di potenziali candidate donne è inversamente proporzionale alla fascia di età considerata. Tra i giovani ed i più giovani (fino ai 30-35 anni di età) la proporzione di candidature femminili, a parità di competenze, è leggermente maggiore rispetto a quella maschile. Superata la soglia fatidica dei 30-35 anni il rapporto candidati maschi versus candidati femmine si inverte e si trasforma drasticamente a favore della popolazione maschile. Il fatto interessante è che questi rapporti che misuro oggi sono identici a quelli che riscontravo quando ho cominciato a muovere i primi passi nel mondo dell’executive search.

Una conclusione si impone: se fosse vero che l’assenza di manager donna è il risultato di una politica discriminatoria, allora saremmo rimasti fermi a oltre vent’anni fa. Nell’arco di una generazione lavorativa (vent’anni, appunto) la nostra mentalità non sarebbe assolutamente cambiata. A differenza di allora, oggi usiamo email, possediamo telefonini, intervistiamo candidati in video chiamata; eppure il pregiudizio sulle donne non sarebbe minimamente cambiato. Ma è veramente così?

Tanti anni fa ho assunto, fresca di laurea, una validissima collaboratrice per un ruolo di assistente di ricerca. Quando mi sono reso conto delle sue potenzialità, l’ho incoraggiata a svolgere ruoli sempre più importanti. Nel giro di pochi anni Valentina (nome di fantasia) si è affermata come una consulente autorevole, in grado di gestire incarichi particolarmente complessi e di risolvere rapidamente le necessità di quelli che erano diventati i suoi clienti. La promettente carriera si è fermata dopo la nascita del primo figlio: la vita di una madre coscienziosa era incompatibile con la vita di consulente. Non si è trattato di una imposizione, ma di una scelta deliberata: un giorno Valentina è entrata nel mio ufficio e mi ha spiegato che, per quanto le piacesse il lavoro che stava svolgendo, “fare la madre di suo figlio” le dava molte più soddisfazioni. Facendo la mamma si sentiva realizzata. Si sentiva realizzata come donna.

Sono passati 10 anni da quel giorno. Oggi Valentina lavora part-time, non più come consulente ma come assistente di ricerca, soddisfatta di poter dedicare più di metà della propria giornata ai suoi due figli.

Raccontando la storia di Valentina ho aperto le porte ad un dibattito molto più ampio di quanto non possa essere trattato con un semplice articolo.

Non credo che nel mondo occidentale si possa ancora parlare di discriminazione culturale: donne come Angela Merkel, Theresa May, Aung San Suu Kiy sono state elette democraticamente dalla maggioranza dei cittadini per guidare i propri paesi. E numerosi sono gli esempi delle generazioni precedenti: Margareth Thatcher, Indira Gandhi, Golda Meir, ecc. Nessuno vuole negare la difficoltà del percorso che queste donne hanno dovuto affrontare; ma gli esempi che potrei citare sono troppo numerosi per poter evocare in maniera credibile lo spettro del pregiudizio sessuale.

La questione deve essere posta in termini completamente diversi. Il problema non è lo spazio lasciato alle donne nel mondo del lavoro, ma piuttosto l’idea che le donne debbano lavorare per poter accedere ad una dignità.
Si tratta di un’idea profondamente maschile, anzi, maschilista. In un mondo maschile l’individuo è definito innanzitutto dal mestiere che svolge: il lavoro è la sua dimensione principale; anzi, la sua unica dimensione, per riprendere l’espressione coniata da Herbert Marcuse.
Pretendere che tutte le donne appiattiscano la propria vita sulla sola dimensione lavorativa significa svilire la ricchezza poliedrica della natura femminile.

Per un uomo la “carriera” è una necessità, ma per una donna è una tra le possibili scelte di vita.
Ed è la scelta consapevole delle proprie priorità (amore, famiglia, figli, carriera, ecc.) che conferisce dignità ad ogni singola donna.

La storia ci insegna che nessuna discriminazione può fermare una donna determinata, qualunque sia l’epoca in cui viva.
La volontà di difendere i propri figli (in successione i re bambini Francesco II, Carlo IX ed infine Enrico III) ha trasformato la mite e riservata Caterina de Medici nella donna più potente e più temuta di Francia, proprio nel periodo più travagliato della storia di quel paese.
La futura Elisabetta I, in rabbiosa rivalità con la sorellastra (la famigerata Maria “la sanguinaria”), ha dispiegato tutte le sue qualità di politico freddo, calcolatore e spietato per perseguire i propri fini (trasformando al contempo l’Inghilterra in uno degli stati più potenti d’Europa).
La quindicenne Cleopatra ha sedotto Cesare (presentandosi completamente nuda dopo essere stata portata al suo cospetto nascosta in un tappeto) per ottenere l’appoggio dell’esercito romano nella guerra contro il cugino.

Ma, allora, esiste veramente la necessità di istituire per legge le quote rosa?
Quale è la percentuale di donne che sente veramente il bisogno di vedere la propria carriera protetta da una norma del codice civile?

Non ho cifre per poterlo affermare, ma dubito che si tratti di un numero elevato.
Eppure l’applicazione di queste quote comporta per molte aziende un costo economico che non ha una apparente giustificazione razionale.
Esistono alcuni settori che restano per loro natura tipicamente maschili: l’impiantistica, l’edilizia, l’ingegneria elettromeccanica sono solo alcuni esempi tra quelli che si possono citare.
Conosco alcune multinazionali che applicano la politica delle quote rosa in maniera rigorosa. Non si può immaginare con quanta difficoltà e con quali “costi nascosti” si riesca a far firmare ad una donna un contratto di lavoro in un cantiere all’estero, tanto per citare un esempio.

In conclusione l’introduzione delle quote rosa è, allo stesso tempo, l’ostentazione, l’affermazione e l’imposizione di un paradigma ideologico; un paradigma ideologico che si riassume in uno slogan: uomini e donne sono perfettamente uguali e quindi interscambiabili.
Si tratta di un “dogma” apparentemente innocuo, e tuttavia carico di conseguenze pericolose.

Innanzitutto è pericoloso che le scelte aziendali debbano essere condizionate da una valutazione ideologica. E’ la negazione della “legge di mercato”. Se si apre la porta ad una eccezione di questa portata, si aprono le porte a tutte le eccezioni.

Ma c’è una considerazione ancora più importante: questo slogan è falso!
Non voglio essere frainteso: uomini e donne hanno la stessa dignità e devono avere pari diritti. Tuttavia uomini e donne non sono commensurabili; a maggior ragione non sono interscambiabili.
Quando avevo 16 anni conobbi una mia coetanea che militava attivamente in un gruppo femminista. Un giorno cominciammo a parlare di politica e di ideologia; ed io finii con l’affermare, ingenuamente, la mia convinzione nell’uguaglianza tra i sessi. La mia nuova amica mi liquidò in un attimo, congelandomi con una risposta che non potrò mai dimenticare: “donna e uomo non sono uguali”, e dopo una breve pausa, “una donna non può violentare un uomo!”.
Questa risposta provocatoria, pronunciata da una donna, racchiude tutte le contraddizioni del dibattito sul rapporto tra i due sessi. Lo spirito umano è la sintesi e la fusione di due nature, allo stesso tempo complementari e antitetiche, che le culture orientali chiamano yin (femminile) e yang (maschile). Non si può pretendere che un uomo ragioni e si comporti come una donna; allo stesso modo non si può pretendere che una donna ragioni e si comporti come un uomo. La sintesi positiva di queste due energie contrapposte si ricompone nel riconoscimento e nel rispetto delle reciproche differenze.

Bisogna quindi accettare il dato di fatto oggettivo che la maggior parte delle donne non è interessata a rinnegare la propria femminilità (con tutto quello che comporta: famiglia, affetti, ecc.) in nome del successo professionale. Questo è il vero motivo per cui ci sono così poche donne ai vertici delle piramidi aziendali.

E’ sbagliato intervenire in maniera artificiosa per modificare questo stato di cose, perché si andrebbe contro la libera scelta delle donne di oggi.

Le quote rosa non solo ostacolano il naturale funzionamento delle organizzazioni, ma sono anche un indecoroso insulto alla femminilità.
Come cantavano i troubadour provenzali: “Vive la différence”.

L’emancipazione femminile non può e non deve passare attraverso l’appiattimento su un progetto di vita tipicamente maschile, cioè lavoro e carriera.
La bellezza della natura femminile risiede nella sua poliedricità. Quindi, non uguaglianza, ma pari dignità.

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