MANAGER E CACCIATORI DI TESTE

L’intervista che ho rilasciato a Massimo Esposti per essere pubblicata sul Sole24Ore mi è valsa molte critiche.

La critica, quando razionalmente motivata, è sempre positiva e offre l’opportunità per maggiori approfondimenti; un’opportunità che colgo puntualmente.

Come spesso accade il titolo dell’articolo può distrarre dal reale contenuto del messaggio. Come ho spiegato, un CV spontaneo è sempre ben accolto. Ma non bisogna aspettarsi che questo sia sufficiente a stimolare l’interesse di un cacciatore di teste.

Ed è tutt’altro che scontato che il rapporto con un cacciatore di teste sia la strada più efficace per trovare un’opportunità lavorativa. Come ho avuto modo di spiegare in altri articoli, ritengo personalmente che la rete di contatti personali attivati con il passa-parola offra maggiori opportunità a chi si trovi alla ricerca di nuovi orizzonti professionali.

Tuttavia molti manager sentono la necessità di creare un rapporto di interlocuzione preferenziale con un cacciatore di teste, fosse anche solo per ricevere consigli, suggerimenti o supporto psicologico. E’ a codesta categoria di manager che si rivolge la mia intervista.

Le critiche più interessanti riguardano però le implicazioni “etiche” delle considerazioni che ho esposto. Molti lettori sono rimasti interdetti dal mio invito ad esprimere una duplice lealtà: verso l’azienda, ma anche verso sé stessi.

Il termine “duplice” si presenta nel linguaggio comune con una accezione semantica negativa che viene facilmente associata all’ambiguità. In realtà l’ambiguità nasce proprio dal personaggio interpretato dal manager: ovvero un mercenario, pagato per svolgere un compito preciso e per raggiungere obiettivi ben definiti.

Quarant’anni fa il ruolo del manager corrispondeva ad una visione romantica del mondo aziendale. Il “job for life” era un impegno di fedeltà reciproca destinato a protrarsi per tutta la durata della vita lavorativa. Sono le stesse aziende che hanno “rottamato” questo modello, liberandosi in maniera sempre più massiccia di quei manager “non più immediatamente necessari”. Oggi qualsiasi manager che abbia superato la fatidica soglia dei 45 anni è consapevole di essere quotidianamente a rischio di licenziamento.

La capacità di interpretare valori molteplici è la vera forma di difesa, di protezione e di garanzia del manager moderno.

In questa luce non è corretto parlare di ambiguità, né tantomeno di duplicità. Personalmente, preferisco parlare di comportamento duale. Anche perché la dualità è una delle manifestazioni più antiche del pensiero e della cultura occidentale. La dualità è una caratteristica dell’Occidente, un elemento distintivo rispetto alle culture asiatiche o orientali; un elemento che fa la sua comparsa con la civiltà greca.

Il greco antico è l’unica lingua che conosca che possieda tre numeri: il singolare, il plurale ed il duale. Al liceo si insegna che il duale viene utilizzato quando i soggetti o gli oggetti sono due. In realtà il duale trova impiego soltanto quando i due soggetti/oggetti sono uniti in una identità da un legame logico: ad esempio, moglie e marito. Quando tra due elementi non esiste un collegamento che crei un concetto identitario, si usa il plurale.

Per i Greci la dualità era una naturale manifestazione dell’essere.

L’eroe duale per eccellenza nella cultura greca è Ulisse, ovvero l’anti-eroe. Ulisse non è il cavaliere senza macchia e senza paura della mitologia medioevale cristiana. Ulisse è l’uomo dell’astuzia, dell’inganno e della frode. Eppure il suo contributo (il cavallo di Troia) è determinante per il successo della spedizione militare greca.

In un episodio che non è riportato nell’Iliade ma che ci è stato tramandato dalla letteratura greca Ulisse avrebbe cercato di non partire per la guerra di Troia fingendosi pazzo. Temeva infatti di non poter tornare se non dopo molti anni. Smascherato da Palamete con un tranello e battuto al suo stesso gioco, si è quindi unito alla spedizione greca. Come sappiamo, Ulisse ha poi combattuto lealmente per la causa greca, sposandone gli obiettivi e svolgendo un ruolo decisivo nel raggiungimento della vittoria.

La dualità di Ulisse consiste proprio in questo: un’unica persona che riesce ad essere fedele, da una parte a sé stesso e alla sua famiglia, dall’altra alla sua comunità allargata di appartenenza.

Per poter sopravvivere il manager moderno deve trovare il giusto equilibrio con cui esprimere la sua dualità. Come Ulisse, passione e razionalità si bilanciano in un rapporto solo superficialmente contraddittorio; un rapporto che è l’espressione della vera profondità e complessità dello spirito umano.

La dualità etica è una manifestazione eroica del vero umanesimo: non è alla portata di tutti.

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